Il diario ritrovato

Il diario ritrovato - Un contadino valdese alla grande guerra

di Claudio Ferruccio Slaviero

 Edizioni NEOS, 2011

Il 15 maggio 1915 molti soldati in partenza per il fronte e che, probabilmente, erano a Torino già da alcuni giorni, andarono a vedere la grande dimostrazione interventista di corso re Umberto ed  assistettero ai tafferugli causati dallo sciopero generale del 17 che paralizzò la città.

In quella folla eterogenea ed attonita c’era anche Enrico Rivoir (Anrì dël Milun), contadino  venticinquenne di Prarostino, chiamato alle armi con altri suoi compaesani. Colpito da quel che aveva visto, prese carta e penna e cominciò a tenere un diario, quasi giornaliero, su 2 libriccini quadrettati, ritrovati fortuitamente molti anni dopo da una nipote e dato alle stampe grazie all’impegno di C. F. Slaviero, cultore di storia locale, che ne ha rivisto il testo e di G. V. Avondo, studioso della prima guerra mondiale e scrittore versatile, al quale si devono la prefazione e le introduzioni alle varie sezioni. Esse permettono, anche a chi la storia se l’è un po’ dimenticata, di collocare gli eventi narrati in un quadro referenziale ben preciso che sarebbe perfetto se la dimensione temporale fosse supportata da quella spaziale. Senza cartine è infatti abbastanza diffi cile seguire i continui spostamenti del giovane prarostinese e localizzare i vari fronti su cui operavano i nostri soldati.

Come molti commilitoni, Anrì non sarebbe partito se non fosse stato costretto. Nel suo diario non c’è nessuna eco di quella retorica patriottarda che nutriva la propaganda dell’epoca. Già sposato e papà di una bimba di un anno, di cui chiede la foto, egli avrebbe preferito rimanersene a casa a curare la sua campagna e le sue vigne. Questa guerra si prospettava più lunga e più temibile delle altre e diffuso era il terrore del non ritorno. Al fronte Anrì è spesso colto dalla paura: paura, in sogno, di esser fatto  prigioniero; paura paralizzante durante i bombardamenti, sotto gragnuole di “sgrapnel1”. L’inattività, al fronte, è invece piuttosto rara: o si scavano trincee o si è di guardia o... si fa il proprio bucato personale: “Il 29 ero intento a lavare in un secchio camicie e mutande”. Una sola volta Anrì accenna alla noia: “Il giorno 29 sono annoiato, in un modo che non so più cosa divenire”. La corrispondenza lo impegna molto. Egli ha rapporti epistolari continui con la sua famiglia e con un’ampia cerchia di amici e conoscenti e tiene, per un anno, un vero e proprio protocollo che si interrompe col trasferimento sui fronti nord-orientale e dei Balcani-Macedonia, zone in cui forse non c’erano servizi postali regolari. L’aggettivo “caro(a)”, associato alla moglie, ai genitori e talvolta anche al paese, dice molto sul carattere di questo giovane che soffre di nostalgia (persone e luoghi), che segue gli avvenimenti del paese leggendo i  giornali (La Gazzetta del Popolo - La Stampa - La luce) che i famigliari gli mandano. Dalla prima, il 5 agosto 1915, apprende la morte dell’amico Alessandro Bleynat.

Le due feste simbolo del popolo valdese, il 15 agosto ed il 17 febbraio, hanno un’eco nel diario. Il 15 agosto 1915, preceduto da una notte insonne sotto gli alberi con lo zaino vestito, in un freddo enorme ed iniziato presto con un ennesimo bombardamento; il 17 febbraio 1917, trascorso sotto un bellissimo sole ma, in missione per il 64° reggimento fanteria, con un freddo intenso, “attraverso alle schif...me montagne Serbe”, a partire dalle 18 “quando ero a casa partivo per andare a festeggiare” fi no alle 6 e 30 del giorno dopo.

Il commento di Anrì è uguale in entrambi i casi: “Ecco la festa del 15 agosto”, “Ecco la festa del 17 febbraio 1917”. Senz’altro fu più felice, benché trascorso nel viaggio verso casa, quello del 1916, coincidente con la sua prima licenza. Stupisce invece che, nonostante il suo attaccamento alla famiglia, non si lasci andare aqualche malinconica considerazione a Natale. Nel 1915, primo Natale al fronte, Anrì annota solo la spedizione di una lettera a casa e la ricezione di una cartolina della moglie. Nel 1916 glissa addirittura sulla data passando  dal 23 al 28. La Pasqua del 1917 fu una giornata di lavoro, seguita da una notte movimentata, così “Ritornando a casa all’una del giorno 9, ecco la mia festa di Pasqua!”.

Il giovane soldato usa il suo diario per esorcizzare gli avvenimenti di cui è protagonista e che, talvolta, sembrano sopraffarlo. Scrive, con la tipica grafi a inclinata dell’epoca (appresa sui banchi della sua “scuoletta Beckwith”) in situazioni non ottimali o addirittura proibitive, descrivendo  vari bombardamenti in presa diretta, lo scoppio di un aereo, il dolore di animali feriti, le marce forzate di trasferimento da un fronte all’altro, la vista di prigionieri, le diffi coltà causate da condizioni meteorologiche avverse e dalla scarsità di cibo. Per fortuna c’è anche qualche momento di serenità e di distensione. La ricerca ansiosa di commilitoni di Pinerolo e Prarostino è fruttuosa: alcuni di loro rispondono all’appello. Qualcuno introduce i due prarostinesi (Cesare Costantino ed Enrico Ciambon): “A iè teui amis ch’at cercu”. I tre passeranno quasi tutto il giorno insieme parlando del “caro paese”. La pagina 68, che riferisce l’incontro inaspettato con un compaesano e la pagina 70 sono certamente tra le più riuscite e commoventi del diario!

Tra il 9 ed il 12 luglio 1917 Anrì ritroverà Enrico e, con lui, passerà tutta la notte “a bere sotto un tendone sul fi eno”. Di ritorno all’accampamento Enrico si prenderà 15 giorni di rigore! Qualche osservazione merita anche lo stile del nostro autore. Pur avendo una scolarità bassa (si suppone la terza elementare) padroneggia l’italiano meglio di tanti suoi compagni provenienti da altre regioni d’Italia. Usa con  disinvoltura il passato remoto (poco congeniale ai piemontesi), rispetta discretamente l’accordo dei tempi mentre ricorre poco al congiuntivo. Il suo linguaggio si colora di metafore pittoresche, ispirate dalla natura: “e l’acqua usciva dalle scarpe come uscire da una fontana”; “venne l’acqua dentro che sembrava un torrente”. Più spesso è il mondo animale a suggerirle: “Stanchi (bagnati) come bestie; bagnato come (peggio che) un maiale”; “eravamo coperti di fango fi no alla testa, peggio di un maiale che si butta nel fango”; “tremavo come un cane”. Non mancano i piemontesismi (frunchi = foruncolo; tifu), nell’ortografi a di “Attiglio = Attilio”, nell’uso dei verbi “fi ccare” e “chiamare” nel senso di chiedere. L’aggettivo “esagerato”, serve a defi nire un forte temporale e, al superlativo, il fango (fango esageratissimo). Una pioggia abbondante è “a volontà”. Singolari l’uso del verbo “godere” in senso negativo, riferito al freddo; del dotto aggettivo “ignoti”, forse appreso dal freddo linguaggio burocratico dei bollettini di guerra. Un piccolo dizionario italiano-macedone è la chicca delle pagg. 68 e 69.

Curiosamente il diario si ferma al 6 luglio 1918, con un appunto sulla cena a base di scatolette, la sveglia antelucana e l’imbarco, alle 8 del giorno seguente, sulla nave Brasile, diretta verso l’Italia. Nulla si sa del viaggio di ritorno, dei suoi tempi e dell’arrivo a casa. Sembra quasi che Anrì voglia chiudere definitivamente quella parentesi poco felice della sua vita: volta decisamente pagina, ripone i suoi quaderni in luogo sicuro senza parlarne, si dedica alla sua famiglia ed alla sua attività agricola e, stando alla testimonianza della nipote, non ama evocare il passato raccontandolo.

Chissà che cosa penserebbe della pubblicazione del suo diario?

Annalisa Coucourde

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